lundi 7 juin 2010

"I beati anni del castigo", Fleur Jaeggy



Coraggio o bizzarria, questo romanzo è ambientato, per la più parte, in un istituto femminile.

Eh no, la storia non è affatto lineare: nel racconto entra prepotentemente Fréderique, compagna maggiore d’età e d’esperienze, che ruba la scena alla narratrice, così che quella ch’era sembrata un’autobiografia diventa biografia en abîme dell’amica.

Fréderique ha lineamenti netti, imperiosi, assomma in sé i talenti della razza, fin de race, eppure «Immobile, sembra velata.» Impossibile non amarla.

Il collegio, coda o appendice cieca del mondo, ammette due variabili estreme, marcire o rigenerarsi. Fra le lezioni la promiscuità il sonno e le passeggiate, «un’arcadia della malattia», l’universo di Fréderique si rivela per accenni ominosi, mentre la narratrice è generosa di se stessa, un libro aperto (ne diffideremo mai abbastanza? Di quali eccessi sarà capace la nostra mediocre protagonista?).

Sarà capace d’amore, esclusivo, mai dichiarato, mai inteso come carnale, un amore ascetico per eccesso di perfezione, o se vogliamo un amore verso quella perfezione che Fréderique incarna E non si tratta di passione omofila, perché l’identità personale di amante e amata viene oltrepassata e rinnegata.

Protagonista e deuteragonista – l’innominata narratrice è un Watson più sottile del suo Holmes – si avvicendano, si avvitano in una doppia elica: la protagonista giunge a cercare d’imitare l’inimitabile Fréderique, fino ad identificarsi con lei nel più intimo dei gesti pubblici, la grafia. Ma entrambi si affacciano e si ritraggono sull’orlo invitante dell’abisso, in una danza goffa e struggente. L’amore è schiavitù, e se l’istinto a sfuggirlo prevale, si sarà comunque assolti.

Un fuoco di questa storia ellittica è la beatitudine, quella che consiste tutta nel guardare e guardarsi. L’altro è l’attenzione al tempo che scorre, così minuziosa da arrestarlo e cristallizzarlo. Vorremmo chiamarlo un romanzo di formazione, se una formazione avvenisse: invece ogni attesa è denegata e derisa. La protagonista impara che la via dell’indugio e della diversione è la sola che conduca a una qualche meta.

Dopo gli addii a fine anno, che ne sarà delle due amiche? Da adulta, la protagonista ritroverà una Fréderique in un diruto casamento di Parigi, la folle e abbrutita, che parla coi morti e gioca col fuoco. Dai racconti impassibili della madre di Fréderique apprenderà che i giochi col fuoco si sono spinti fino alla mania incendiaria e omicida. E i conti torneranno, chiudendo il cerchio. La follia che negli occhi adolescenti di Fréderique danzava come uno sfarfallio di neve è esplosa nel mondo esterno con tutta la sua virulenza. Questa è la forma finale della sua paradossale perfezione.

«Ve l’avevo detto», sembra insinuare l’autrice, e sorge la tentazione di ripercorrere il romanzo per cercare altri segni premonitori.

Forse la premonizione della follia è il vertice di quei saperi femminili che emergono lungo l’arco della vicenda, facendosi largo a fatica tra la benedetta ignoranza adolescenziale, quella che pilota verso le prove e le scoperte.

Fra la storia e il suo esito, lo stile apparentemente algido di Fleur Jaegy, il linguaggio terso, l’arte di scrivere cose terribili senza batter ciglio, senza mostrare emozione (che è cosa ben diversa dal non provare emozione).

Tutto è ormai trascorso irrimediabilmente, anche se la riverberazione dolorosa dell’imperfetto si propaga verso il passato remoto e verso il presente. Voci controllate e non sovrapponibili ridicono le stesse ottuse verità: quella stridente della direttrice, quella carsica dell’io narrante, quella priva d’armoniche di Fréderique.

E, in questo romanzo che gira su se stesso come un sasso rivoltato dalla marea, forse il vero epilogo è l’incipit, l’ovattata rivendicazione d’un desiderio, quello d’esser trovati morti, come Robert Walser, nella neve.

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